La violenza ortogonale dell’architettura.

La violenza ortogonale dell’architettura.

Proseguo con i miei articoli critici sull’architettura, come premessa a una propositività che ha trovato il chiasso di un trattore, nel campo di una università, che altro non poteva fare che coprire il suono di un violino che incautamente si era messo a suonare senza rendersi conto del contesto in cui era capitato.

Per quanto sia possibile definire con la limitatezza dei nostri sensi, il tangibile che ci circonda, senza ombra di dubbio esso appare come un insieme di spirali perfettamente in armonia fra loro che pulsano entropicamente in un alternarsi contrattivo e dilatativo, come se un cuore universale segnasse il passo di questa energia che ovunque si propaga e ritorna definendo identità e movimenti.

Basta osservare le forme degli alberi che spontaneamente crescono senza subire la violenza di potature, il movimento delle onde del mare alimentate da venti le cui direzioni non sono mai ortogonali, oppure anche microscopicamente l’evolversi della crescita cellulare dal concepimento in poi.

In questo contesto di dinamiche spirali ellissoidee con l’ottusità tipica del tecnicoche impone i propri modelli assiali, la realtà fenomenica viene sventrata da forme cubiche e rettilinee, di strade, edifici, che stocasticamente si impongono su un territorio in modo  avulso da ogni rapporto con la vita e la biologia, mentre al proprio interno costruttivo, impongono sistemi ipercontrollati di dettagli semplificati in poche variabili, i tre assi cartesiani.

Inadattate per scelta, dissonanti al contesto vitale di boschi, montagne, mari, fiumi esse si impongono come un modello di mortein cui l’elevata temperatura cui sono stati sottoposti i materiali costruttivi, non permetta per diversi decenni alcuna possibilità vitale.

In questa desertificazione abitativa l’uomo occidentale è costretto a vivere, mentre sviluppa fobie verso qualsiasi cosa che abbia vita, e un autonomia propria: la biologia, la quale come uno specchio fa sentire la propria protesta, con crescite disorganizzate di cellule, i tumori, ormai sempre più diffusi non solo negli uomini ma anche in piante e animali. 

Forse la biologia aveva una traccia: il suono del canto degli uccelli, che vengono uccisi da cacciatori che si prodigano per una sempre più estesa cacofonia dell’ecosistema.

In questo contesto come una divinità mortifera, si impone la violenza ortogonale dell’architetto, e dell’urbanista, sventrando paesaggi, livellando ogni cosa in modo che tutto appaia semplice, comprensibile anche a un idiota.

In questo deserto costruttivo fatto come un insieme di granellini di materia morta: la sabbia, l’architetto “thaniatiano” in un estasi orgasmica progetta contenitori perfettamente cubici, possibilmente di soli due colori il bianco e il nero, come la scacchiera, sopra cui svolgere il gioco, gioco in cui l’architetto non si rende conto che sta giocando con se stesso e non con quella natura che vorrebbe trasformare, la banalità del male (thanatos) si specchia in un gioco che è destinato ad auto-estinguersi, per quanto l’architetto inventi vasi cubici per far stare alberi senza radici, destinati a morire a breve, i loro semi eternamente viaggeranno nel vento e si poseranno nel momento giusto al posto giusto, il grande architetto: Dio vince sempre, mentre il sole scioglie le ali di cera di cui sono fatte le idee di certi architetti, boriosi, intransigenti, ottusi e ignoranti.

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