Category Archive: PsicoArchitettura

Social housing approccio regolamentativo versus responsivo.

Vorrei condividere alcune mie riflessioni su come viene insegnata la progettazione delle periferie cittadine, nei laboratori di “Costruzione dell’Architettura” dei corsi universitari di Architettura, e per evitare generalizzazioni non corrette, nello specifico: nel laboratorio il cui titolare del corso fu un docente di nome Matteo Gambaro.

Una prima cosa che mi lasciò attonita fu un certo approccio “commerciale” reso prioritario, in cui la casa popolare veniva vista con più o meno valore a secondo delle destinazioni d’uso delle varie metrature, a prescindere da chi avrebbe fatto uso dell’abitazione (portatore di disabilità o meno) il costo di costruzione doveva essere minimo, e l’aderenza alle normative esistenti rigorosa e obbligante (anche se si sa che la regolamentazione nel sistema giuridico italiano è subalterna ai principi legislativi). Per esempio era necessario un numero di parcheggi privati (2100 m2 per 140 abitanti) indipendentemente dal fatto che si trattasse di una zona di provincia o di una zona metropolitana, ben serivita da mezzi pubblici e ciclabili o meno, in altre parole la progettazione doveva aderire per metrature, ingressi ampiezza porte e finestre a delle misure standard prefissate che non tenevano conto del luogo: pianura, montagna, mare…, della posizione del sole, dei bisogni delle persone, ecc…., un condominio inattaccabile dal punto di vista regolamentativo in cui benessere e abitabilità passavano in secondo piano.

Seguendo questa procedura progettuale, non dobbiamo stupirci se poi le periferie sono piene di anonimi alveari, con appartamenti impilati uno sopra l’altro, nel modo meno costoso possibile, tutti uguali, anonimi, depressogeni, in cui la tensione è spesso alta, se questo è l’approccio progettuale non ne può che derivare un simile costruire.

Partendo dal punto di vista psicologico l’approccio è totalmente differente rispetto quello dell’architetto, in quanto lo psicologo immagina di dare risposte a problemi e non di ignorarli amplificando un approccio regolamentativo.

Una prima domanda che lo psicologo si fa è: quali sono le caratteristiche delle persone che fanno richiesta di un alloggio popolare, e la regione Lombardia fornisce un dato il 12% sono anziani e disabili, ma prevedere un 12 % di alloggi specifici per anziani e disabili non è regolamentato quindi può essere ignorato.

Un’altra domanda che lo psicologo si fa è: quali sono i bisogni delle famiglie con bimbi, trova dei dati in cui emerge che sono carenti gli asili nido, gli spazi per il gioco protetti, spazi di condivisione per poter sorvegliare i bimbi, quindi lo psicologo immagina una grande area verde all’interno di un edificio tipo corte, per i ragazzi e i bambini con finestre facilmente accessibili ai genitori per poter vedere cosa stia succedendo ai loro figli, ma questo non è regolamentato mentre i parcheggi si, e allora che fare? Mettere delle griglie da dove esce il gas di scarico delle automobili vicino allo spazio giochi? Perché poi anche il rapporto fra terreno su cui vi è il costruito e non, anche quello va rispettato, lo dice la regola “x”.

Poi l’accessibilità ai disabili da tutti i punti d’accesso, ma poi si tolgono metri quadri magari a un ripostiglio, certamente più commerciabile? (e non si capisce a chi dovrebbe essere venduta una casa popolare)cosa che dal punto di vista di un architetto parrebbe inaccettabile.

Ora per non farla troppo lunga, una cosa salta alla mente, quando si progettano gli spazi privati di committenti, i bisogni di chi andrà ad abitarci sono al primo posto e l’approccio responsivo è d’obbligo, quando si progetta edilizia popolare al primo posto ci sono regolamenti che poi rendono l’abitare più insano almeno dal punto di vista psicologico, ma allora tutto questo parlare di “ricostruire le periferie” non è un po’ ipocrita?

Chiaro che considerare aspetti psicologici nel costruire il social housing potrebbe migliorare di molto le dinamiche relazionali nelle periferie, ma chiaro anche che questo non accadrà MAI fin quando il progettista (architetto) non abbandonerà quell’aurea di onnipotenza tecnico-regolamentativa che tanto lo protegge forse da contestazioni giuridico opportunistiche  ma anche poco offre a chi ha la necessità di abitabilità responsive e non di cubi abitativi perfettamente a norma di regolamento (perché le leggi sono altra cosa), magari un regolamento avulso dalla situazione contingente ma se lo dice il regolamento edilizio lo si fa senza chiedersi nulla? Attenzione perché poi eventualmente se il Magistrato di turno chiederà, chiederà conto delle responsabilità disattese e non dell’applicazione intransigente di regolamenti.

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Mantova e Architettura riflessioni sulla bellezza.

Quando si parla di bellezza di cosa si parla?

La bellezza a mio parere è una qualità spirituale che può estrinsecarsi in un manufatto concreto tangibile, ma non può mai essere una qualità materiale.

La bellezza non occupa, non distrugge, non ha bisogno di fare marketing di se stessa, non è narcisistica, in un certo senso ha qualità etiche se per etica si intende una specie di armonia come un insieme di accordi musicali che non producono dissonanze, la bellezza non è regolamentativa, necessita di una libertà piena che non è informale, debosciata, ma “etica” armonica.

La bellezza è come un fiore che sboccia su una gronda, incurante del contesto, se il contesto è brutto, e attira spontaneamente a se l’attenzione di tutti, non ha bisogno di avere cornici in cui viene decantata, attira spontaneamente, non ha bisogno di strategie comunicative per essere riconosciuta, non ha bisogno di festival dell’architettura.

La bellezza non dialoga con la bruttezza, ma nemmeno la distrugge, semplicemente la ignora per non farsi fagocitare dalla sua prepotenza.

La bellezza architettonica unisce il bello all’utile, necessita di un atteggiamento di ascolto, di cura, di immaginazione circa le persone che utilizzeranno quegli spazi, di rispetto, di amore e di verità.

La bellezza architettonica non può mai essere una linea che separa, ma solo linee che uniscono, confini che proteggono ma non separano, confini che predispongono contatti sociali ma non li obbligano, confini che non separano il cielo dalla terra, ma permettono “alla terra” di scegliere liberamente se esporsi o meno al cielo.

La bellezza architettonica non può essere affaristica, il business architettonico ha creato spazi orrendi di cementificazione che sono esattamente il contrario della bellezza.

La bellezza non può essere una prigione di cemento armato, da cui espellere la natura, piante fiori animali, perché la natura è la più grande e principale maestra di bellezza, non esiste migliore docente di bellezza di una natura che si estrinseca nello spazio e nel concreto tangibile, parlando allo spirito senza usare parole.

La bellezza architettonica non si autoesalta nelle archistar, e non può derivare dall’applicazione di norme avulse dagli obiettivi per cui sono nate, la bellezza non è aggressiva, non è militare, non è prepotente, ne invadente, non è autoritaria ma nemmeno lassa, è nell’etica dell’ascolto e del rispetto che si trova la bellezza, la bellezza è libertà senza disordine.

Ma……M.A. Mantova Architettura quali messaggi invece veicola? Certamente non condivide in mio punto di vista…..

Pensiero critico alla riscossa.

admin

Architettura urbana e gestione dei rifiuti.

La produzione e lo smaltimento dei rifiuti coinvolge diversi aspetti:

  • igienico-sanitario,
  • accessibilità,
  • raccolta, stoccaggio,
  • riciclo,
  • estetico (arredo ), … quelli che posso ricordare per primi, ma ce ne saranno sicuramente altri.

Le priorità in ordine d’ importanza a mio parere contemplano: al primo posto l’aspetto igienico sanitario in quanto i costi collettivi che ne deriverebbero potrebbero essere imponenti; anche l’accessibilità ai punti di raccolta è importante, per evitare comportamenti sociali individuali non desiderabili, poi raccolta, stoccaggio, riciclo, e per ultimo andrebbe a mio parere posto l’aspetto estetico che coinvolge la visibilità o meno della presenza dei rifiuti lungo le strade urbane, avvertita come antiestetica: brutta.

In alcune città la scaletta delle priorità è stata invertita, mettendo l’aspetto estetico al primo posto e quello igienico all’ultimo, è curioso constatare come questo sia avvenuto per esempio dove il sindaco era un architetto, come se la professione o il lavoro svolto dal sindaco di una città potesse influire sul buon senso e la logica decisionale.

Com’è possibile che in nome dell’estetica urbana i cittadini siano costretti a tenere le immondizie nelle proprie abitazioni per una settimana o per più tempo se nella finestra oraria settimanale (due ore) non hanno la possibilità di essere nella propria abitazione per poter spostare i propri rifiuti sulla strada, questo causa condizioni abitative anti igieniche indubbie.

Inoltre si rilevano anche condizioni anti igieniche urbane, i rifiuti sulla strada attraggono maggiormente animaletti di vario genere, e la risposta delle amministrazioni comunali è stata in termini di uccisione degli animaletti tramite esche avvelenate, ma l’animaletto avvelenato poi si sposterà assieme al veleno ingerito compromettendo un ecosistema urbano già ampiamente alterato.

Da questo si evince come una certa architettura ignori le componenti biologiche, naturali, sanitarie, psico-individuali e psicosociali, e rischiando con il proprio intervento su ipotesi estetiche di dubbia condivisione: togliere i cassonetti dei rifiuti perché sono brutti, va a complicare ampiamente la vita di tutti.

Questa è quella che si potrebbe definire “l’architettura ottusa” degli angoli retti, dei colori uniformi, delle suddivisioni geometriche che richiedono che un albero se cresce al di fuori di certa linearità venga eliminato, un architettura dove tutto ha una linearità statica e controllabile ma più vicina alla cosi detta: pulsione di morte che alla pulsione di vita.

Un’ architettura che avverte come disturbante la libertà della natura di crescere in base alle condizioni climatiche di sopravvivenza, e si rende intollerante a una natura che si permette di ignorare ortogonalità, uniformità e linearità e che pertanto va o soppressa o “rieducata”.

Ma un architettura più dinamica, vitale, e pertinente all’esistenza umana e alle sue relazioni con la natura, piuttosto che a geometrizzazioni astratte, la troviamo in Giappone, dove i manufatti abitativi si integrano con la natura e la biologia, non sempre ma quelli tradizionali della cultura scintoista di certo si.

Eppure durante le esposizioni italiane (mostre), che raccontano dell’architettura giapponese, troviamo tutti d’accordo sul fatto che la qualità abitativa è decisamente più alta, ma questo non fa modificare una certa cultura architettonica italiana dove sembra che il bisogno di controllo magari derivante da qualche fobia prevalga sull’evidenza che: vivere in rispettosa serenità con il mondo naturale è di gran lunga più semplice ed edificante.

Ritorniamo alla produzione e lo smaltimento dei rifiuti urbani;

una soluzione utopica, urbanistico architettonica, a imitazione di quella naturale potrebbe essere realizzata con una specie di rete a notevole profondità nel sottosuolo, dove i rifiuti andrebbero incontro a una serie di modificazioni biochimiche fino a essere trasformati ed emessi come sostanze energicamente riutilizzabili, o inerti, una specie di intestino della città, in altre parole una città concepita più come essere vivente che come sepolcro imbiancato. Indubbiamente questo richiederebbe molto ingegno, la capacità di riconoscere tutte le fasi biodegradabili, gli insetti che le accelerano, le sostanze da immettere che le trasformano, che le rendono più fluide ….. un equipe di ingegneri , biologi, chimici, naturisti, architetti, gli architetti dovrebbero individuare il funzionamento cittadino, quali rifiuti vengono prodotti, i comportamenti collettivi reali e i bisogni collettivi a cui dare una risposta, si passerebbe da una architettura muraria a un architettura sociale dove la consapevolezza dei comportamenti umani sostituisce l’ortogonalità e l’uniformità muraria.

 

Ma passando dall’utopia alla realtà i cassonetti dei rifiuti non sono più antiestetici di un automobile parcheggiata lungo le strade del centro storico, e se c’è tanta tolleranza per questi oggetti inquinanti che come scatolotti di plastica stazionano ore lungo le vie della città non vedo perché non ce ne debba essere altrettanta per i cassonetti dei rifiuti.

 

 

 

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Psico architettura un esempio.

Mantova da Porto aperto a città fortezza chiusa.

Seguendo il corso del Rio, che si affaccia sul lago superiore, si arrivava nei secoli scorsi, a un Porto chiamato: Portazzolo, questo porto era antichissimo, e lo si trova nelle cartografie di Mantova già in epoca rinascimentale, all’ingresso del Rio sorgeva una Porta

Oggi vediamo dalle vedute satellitari, come i binari della ferrovia creino di fatto un muro divisorio,  lo stesso (1782-1866) che venne costruito come muro di cinta, a difesa dell’arsenale che derivava dalla soppressione del Convento francescano,   un secolo di dominazione austriaca,  dopo due secoli, influenza ancora questa parte della città, che prima era un porto quindi un luogo di apertura e scambio,  diventato poi un muro di cinta militare, quindi chiuso.

L’influenza architettonica sull’identità sociale è spesso sottovalutata, spesso sentiamo gli architetti dire che le montagne sono barriere naturali che influenzano la popolazione rendendola più introversa, come anche il mare che renderebbe più estroversi, ma  anche certo radicamento urbanistico e architettonico non è da meno. Non è possibile immaginare che un porto con tanto di navigabilità sul lago che indifferentemente viene trasformato in una barriera impenetrabile, con un muro prima e con dei binari dopo, non abbia alcun effetto sull’identità sociale di chi ci abita o lo frequenta.

qui si vede Porta Pradella e delle imbarcazioni

anche qui vediamo rappresentate diverse imbarcazioni.

La foto fa vedere come era via Pitentino, in fondo una “casa ponte” e altre abitazioni demolite per far posto ad ulteriori binari della ferrovia, siamo nel 1943, e da allora rimarrà questa barriera di binari che impediranno l’accesso al lago superiore, dopo aver soppresso non solo la chiesa di San Francesco rendendola un arsenale verrà mantenuta  anche la soppressione del porto Portazzolo sul lago superiore, simbolo di apertura e scambio. Nel 1945 la chiesa di San Francesco venne bombardata e forse anche alcune case adiacenti vennero danneggiate ma perché non ricostruirle? Perché “allargare il muro”?

Dobbiamo iniziare a riflettere su come e quanto l’ambiente urbanistico e architettonico influenza, non solo i comportamenti, ma anche le identità sociali e gli stati interni della mente, e sulla grande responsabilità che hanno sulla salute delle persone: i progettisti, i committenti, i pianificatori urbanistici.

 

 

 

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